Autodistruzione?
Intervista con Serge Latouche di Arturo Zilli - da Carta.org
Serge Latouche, antropologo dell'economia, osservatore attento dei movimenti sociali in Europa e nel Sud del mondo, filosofo e teorico della decrescita, è stato a Bolzano, invitato dal Centro per la Pace, per presentare il suo libro "La scommessa della decrescita" [Feltrinelli]. Il suo nuovo lavoro demolisce ogni fondamento della crescita economica illimitata, parola d'ordine dei governi di destra e di sinistra, che vi intravedono la soluzione per tutti i mali.
E, invece di invocare un fuorviante "sviluppo sostenibile", Latouche sostiene che ci si dovrebbe impegnare per una società della decrescita, fondata sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione.
All'intervista, Latouche arriva molto informato. Come esempio di resistenze locali al paradigma della globalizzazione, Latouche cita le esperienze di opposizione alla trasformazione violenta del territorio che si sono avviate a Bolzano e in tutto il Tirolo del Sud: la lotta contro il tunnel di base del Brennero o contro la costruzione del nuovo megainceneritore in mezzo alla Valle dell'Adige, il no all'abbattimento di alberi per far posto alla costruzione di nuovi parcheggi in centro città o all'ampliamento dell'aeroporto.
"I problemi ecologici sono certamente mondiali - spiega Latouche - e non si potrà fare nulla se non si invertiranno i rapporti di forza a livello nazionale e internazionale ma, per il momento, non possiamo fare a meno di agire localmente: bisogna resistere a tutti i livelli ma nel quotidiano e nel concreto ci giochiamo molta della nostra capacità di iniziare un cambiamento, perché dal basso si può vincere e far capire alle persone quale sia la posta in gioco. Movimenti come quelli della Val di Susa, di Serre, e di tanti altri luoghi in Italia e in Europa sono la strada giusta, perché la lotta per restituire significato alla realtà dei luoghi in cui viviamo si può inserire nel progetto più vasto di una società diversa"
Perché non ha più senso parlare di "sviluppo sostenibile" e bisogna sostituire questo concetto con quello di "decrescita"?
Si dice spesso che il concetto di "sviluppo sostenibile" ha deviato dal significato originario. Oggi sono governi e grandi imprese a parlarne, e addirittura esiste il World business council for sustainable developement in cui sono raggruppati tutti i più grandi inquinatori del pianeta: Monsanto, Novartis, Nestlé, Fiat, Total-Fina e molti altri. Fin dalla sua origine, negli anni settanta, il concetto di sviluppo sostenibile è stato una mistificazione, un ossimoro, perché si sapeva molto bene, a partire dal primo rapporto del Club di Roma del '72, che tutto ciò che generava i problemi ambientali era lo sviluppo che si basa sulla crescita illimitata, la cui logica è quella di produrre e consumare sempre di più. Ciò evidentemente, a lungo andare, non è sostenibile. L'idea di sviluppo sostenibile serve per affermare che si sta facendo qualcosa di diverso mentre si continua a fare la stessa cosa.
Per demistificare questo concetto era necessario trovare qualcos'altro. Per anni l'abbiamo criticato, abbiamo parlato di post-sviluppo. Alla fine, un po' per caso, nel 2002, è apparso il termine "decrescita" che è sembrato uno slogan utile a sottolineare il bisogno di una rottura con la teoria della crescita fine a se stessa.
Ma è immaginabile una concezione dell'economia che non contempli la crescita?
L'economia come la intendiamo nel senso moderno, come sinonimo di economia di mercato, capitalista, si fonda sull'idea dell'accumulazione illimitata e del consumo illimitato. Quindi la decrescita segnala la necessità assoluta di uscire dall'imperialismo dell'economia, dall'"economicizzazione" del mondo e, di conseguenza, dalla colonizzazione del nostro immaginario ad opera del mercato.
In questo momento storico tu vedi nella sinistra - istituzionale o meno - la capacità, o quanto meno l'ambizione, di farsi portatrice di un progetto di cambiamento della società e dell'economia secondo questa ispirazione?
La sinistra istituzionale è già una cosa di per sè non completamente chiara. La si può definire come quella parte politica che intende gestire l'economia e quindi la società in maniera magari diversa dagli ultra-liberisti, ma che vuole gestire il sistema, non cambiarlo o rimetterlo in causa. Jospin diceva: "Si all'economia di mercato, no alla società di mercato". Però, nel momento in cui l'economia è diventata la totalità della società, non si può fare altro che dire sì a tutt'e due gli aspetti citati dall'ex premier francese. È significativo il tentativo di introdurre uno scarto tra il sociale e l'economico nel momento in cui, con la globalizzazione, questo scarto scompare del tutto. La sinistra istituzionale - dalla socialdemocrazia a Tony Blair, ma anche quella extra-istituzionale - s'è lasciata colonizzare dalla logica economica del produttivismo e dell'"istituzione", cioè dalla vita l'interno del quadro definito dalla società capitalista globalizzata. Per questo non nutro tante speranze.
Ma allora chi può promuovere la società della decrescita?
Credo che bisogna abbandonare anche la problematica del "soggetto storico" che abbiamo ereditato dal marxismo. Ogni battaglia ha una fine. La lotta di classe oggi è terminata ed è il capitale che ha vinto. La globalizzazione è la manifestazione della sua vittoria: provvisoria ma incontestabile. Ci sono due maestri tra le mie fonti d'ispirazione:Cornelius Castoriadis e André Gorz. Secondo loro il sistema capitalistico si autodistrugge. Nessuno ha il potere di resistere alle multinazionali.
D'altra parte, non è ciò che resta della classe operaia che si farà portatrice del cambiamento, della "democrazia radicale". Anzi, gli operai sono a volte più reazionari degli industriali. È tutta l'umanità che è minacciata da uno sviluppo e da una crescita senza limiti quindi, potenzialmente, tutti possono essere i fautori della decrescita. Anche gli imprenditori. Molti di loro, anzi, spesso mi invitano a tenere delle conferenze e mi chiedono consiglio sul da farsi. Ci troviamo di fronte all'autodistruzione del sistema ed è l'insieme delle persone che, chi più chi meno, sono tutte complici e vittime del sistema, a poter fare qualcosa per evitare il tracollo della vita sulla Terra.
La città è il luogo principe della produzione e della crescita economica. Andare verso la decrescita significa anche una de-urbanizzazione?
In Francia il movimento per la decrescita è molto ricco e anche contraddittorio. Ci sono due sensibilità, due scuole di pensiero: gli "obiettori di crescita" di città e quelli di campagna. Per quanti sono coinvolti in pratiche alternative è spesso più facile mettere in atto pratiche locali, ecologiche, agro-biologiche. L'agricoltura deve essere un'agricoltura contadina, senza pesticidi e prodotti chimici. Nell'utopia della decrescita, utopia del tutto realizzabile, l'idea è che si dovrebbe essere tutti un po' contadini, produttori di derrate alimentari di base. È un'idea che riprendo in parte da Murray Bookchin. Se si pensa alla decrescita come Maurizio Pallante, che fa riferimento all'autoproduzione, non è facile: come potrei coltivare patate nel quinto arrondissement [municipio, ndr.] a Parigi? Io sono un uomo urbano. Per me la città è la polis, in senso greco, luogo irrinunciabile dove fare politica.
Bisogna certo ripensare le città, diventate ormai dei mostri. Il sistema della crescita distrugge le città. A Bologna, ad esempio, gli urbanisti hanno svolto un lavoro molto interessante paragonando foto aeree a distanza di anni e hanno osservato che se la popolazione non è aumentata di molto, al contrario la distruzione del territorio è stata stupefacente. C'è la necessità di reinventare la città perchè è il luogo della cittadinanza e, allo stesso tempo, reinventare la campagna. Qualche esempio c'è: si pensi all'antico modello italiano dei comuni, che bisognerebbe adattare al presente, con una nuova articolazione tra città e campagna.
Qui
(L'immagine - Botero)
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