La potenza della fisicità fa crollare come un castello di carte l'ottimismo di chi ha fin qui prosperato sull'illusione della «crescita infinita». L'ultimo rapporto dell'International Energy Agency (Iea) - emanazione dell'Ocse - mette un limite preciso, con minime variazioni, al momento fatidico in cui la produzione di petrolio non ce la farà più a tener dietro alla domanda: cinque anni a partire da oggi.
E' il famoso «peak oil» previsto dal geofisico Marion King Hubbert, capace già nel 1956 di predire il momento in cui la capacità estrattiva Usa avrebbe cominciato a decrescere (il 1970, come in effetti avvenne). Centinaia di geofisici - irrisi dalle compagnie petrolifere e dai media sotto controllo (come questo giornale prova a raccontare almeno dal 2000) - stanno da anni elaborando i dati per identificare il «picco globale» entro una forchetta che oscilla tra il 2006 e il 2013. Insomma, ci siamo.
Le incertezze derivano dal fatto che sulle «riserve accertate» vige un segreto quasi militare; con compagnie e paesi produttori alleati nel «gonfiarle». Basti pensare che per oltre 10 anni tutti i paesi Opec hanno dichiarato riserve stabili nonostante gli aumenti di produzione e il rarefarsi delle scoperte di nuovi giacimenti. In Kuwait, due giorni fa, alcuni deputati hanno minacciato di votare contro la legge finanziaria se il governo non rivelerà l'ammontare «vero» delle riserve del paese; dove il dato è un segreto da quando, nel gennaio 2006, il Petroleum Intelligence Weekly aveva citato documenti interni secondo cui l'emirato potrebbe contare solo su 48 miliardi di barili di greggio. Meno della metà dei 99 delle stime ufficiali.
La domanda globale di energia è invece costante. La Iea prevede che aumenterà del 2,2% annuo, sempre che la crescita economica mondiale continui al ritmo del 4.5%. In pratica si passerebbe da un consumo di 86 milioni di barili al giorno a 95. Cina e India, del resto, non possono più rallentare, visto che sono diventate la manifattura del mondo. L'unica «speranza» è che la crescita rallenti un poco; ma servirebbe solo a rimandare di qualche mese il big crunch. Un elemento fin qui tranquillizzante era la spare capacity (capacità di supplire ai «buchi» produttivi) dell'Arabia Saudita. Che però, spiega la Iea, sta passando dal 5% ad appena l'1,6. Anche per questo i prezzi del greggio sono da giorni in costante rialzo, al punto che qualche analista «vede» per settembre un record da 83 dollari al barile.
La seconda notizia è che non ci sono alternative. Il mercato del metano rischia di fare la stessa fine e con gli stessi tempi. La «bufala» dei biocombustibili non ha alcuna influenza sul prezzo del petrolio; ma ne ha una devastante sui prezzi delle derrate alimentari. L'idrogeno non esiste in forma libera, ma va prodotto (con spesa energetica) a partire da altre fonti. L'eolico ha una bassa diffusione potenziale e il solare è già alle prese con la crisi del silicio per i pannelli. Resta il nucleare, su cui già montano gli appetiti delle lobby (e la guerriglia in Niger, primo fornitore di uranio).
La stampa italiana ancora prova a minimizzarne le conseguenze, con esercizi di stile («a piedi, al freddo, al buio», conclude un ameno articolo di Repubblica) e scaramanzie. Ma il tempo di reagire è ora, anche se è forse già tardi. Un'occasione per far sentire la voce dei movimenti si presenterà nei prossimi mesi. Il World Energy Council - organismo privato, solo «accreditato» all'Onu - terrà a Roma, dall'11 al 15 novembre, il suo «forum» globale su energia e clima. Il tam tam del «controvertice» sta già risuonando: ma è il caso di cominciare a capire che quello energetico-ambientale non è più un «tema» su cui far campagna elettorale, ma il problema che aspira nella stessa voragine l'umanità e il capitalismo che ce l'ha spinta.
da il manifesto del 12 Luglio 2007 - Francesco Piccioni
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