Secondo l’ultimo rapporto dell’Energy Watch Group ci troviamo già nel momento di massima produzione mondiale
D’ora in poi la quantità di petrolio disponibile a livello mondiale comincerà a diminuire, perché nel 2007 abbiamo raggiunto il picco massimo di estrazione. Ad affermarlo è il rapporto “Oil Report” dei ricercatori tedeschi dell’Energy Watch Group (Ewg). Questo non significa che il petrolio sia già esaurito ma, per dirla con l’Association Study for Peak Oil&Gas (Aspo), vuol dire “solo” che è finita l’era del petrolio facile. Le storie dei giacimenti minerari dimostrano che l’attività estrattiva segue sempre una curva a campana (curva di Hubbert), con una prima fase di crescita rapida del tasso di estrazione, cui seguono un rallentamento e una fase di calo: da un certo momento in poi, cioè, se ne comincia a prelevare sempre meno, fino all’esaurimento della risorsa. Il massimo di produzione si ha approssimativamente nel momento in cui la metà del minerale è stato estratto. Ed è a questo punto che, secondo l’Ewg, ci troviamo per quanto riguarda il petrolio. Per chi segue il problema energetico il rapporto non dice molto di nuovo, ma anticipa di qualche anno l’inevitabile raggiungimento del picco, previsto dai ricercatori dell’Aspo per il 2011, e calcola che il calo di produzione sarà del sette per cento annuo. Molto più rapido, quindi di quello della curva di Hubbert, che prevede una diminuzione iniziale del due per cento. Praticamente un collasso. Al momento si estraggono infatti circa 86 milioni di barili al giorno e il rapporto dell’Ewg prevede che scenderanno a 58 nel 2020 e a 39 nel 2030. La curva di Hubbert si basa sulla cosiddetta “produzione cumulativa” del petrolio, ovvero sulla produzione passata e presente e su una stima della quantità ancora estraibile. La curva dell'Ewg invece si basa sulla dinamica di estrazione attuale, senza azzardare stime di quanto petrolio ci sia ancora. La quantità di petrolio estratta è infatti in stallo dal 2005 e, secondo i dati dell’International Energy Agency (Iea), negli ultimi mesi del 2007 la produzione è già iniziata a diminuire. Le proiezioni come quelle di Ewg e Aspo erano (e da alcuni ancora oggi sono) considerate pessimiste. Secondo Luca Pardi, dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’Aspo, semplicemente sono eseguite con rigore scientifico: “Sembra difficile riuscire a trovare un linguaggio comune su cui intendersi, perché il punto di vista economico è diverso da quello geologico: l’Iea, per esempio, nelle sue stime presuppone che l’offerta segua la domanda senza limitazioni e ha previsto che nel 2030 si estrarranno 116 milioni di barili al giorno. Una quantità secondo l’Aspo irraggiungibile. Probabilmente non arriveremo mai neanche a 100”. Al problema principale della limitazione fisica della risorsa va aggiunto quello della difficoltà di estrazione, che si traduce in un minor ritorno energetico con ripercussioni enormi sul mercato. Per quale motivo, per esempio, un peggioramento del tempo in determinate aree petrolifere provoca un innalzamento del prezzo del petrolio? E perché compagnie petrolifere come l’Eni guardano sempre più a bacini in cui operare è molto complicato a causa delle condizioni ambientali estreme? Estrarre da piattaforme in mare aperto (offshore) è sicuramente più dispendioso che non da terraferma, eppure sembra non esserci molta scelta. Accettare di operare in condizioni tanto difficili, cosa che si verifica sempre più di frequente, è probabilmente una manifestazione della crisi petrolifera in cui ci troviamo. I grandi pozzi che hanno fornito il 60 per cento del consumo petrolifero sono in declino e anche le sabbie bituminose sono sì una riserva, ma al momento non si riesce a ricavarne più di due milioni di barili al giorno: sforzi in questa direzione sono stati già fatti e, secondo stime Aspo, non si riuscirà a estrarne più di sei milioni di barili al giorno”. Attualmente si consuma un barile di petrolio per ricavarne cinque mentre, all’inizio della storia estrattiva, il rapporto era di uno a cento. Poiché l’estrazione è comunque guidata dal mercato, per un certo prezzo non conviene estrarre dove costa di più: “In molte aree petrolifere non ci sono ancora stati investimenti perché non ci sarebbe un ritorno economico”, spiega Pardi: “Una cosa che le industrie petrolifere non dicono, perché devono difendere il proprio azionariato. Non vanno a produrre dove non conviene, ma non vengono certo a dichiarare che ormai sono un’industria matura”. Se è vero, come dicono gli economisti, che alzando il prezzo diventano competitivi bacini che prima non lo erano, a monte c’è sempre l’aspetto termodinamico: quando per estrarre un barile di petrolio occorre un barile di petrolio, il ritorno energetico è azzerato e non si può più parlare di risorsa energetica, semmai una risorsa di plastica, materiali organici, o fertilizzanti. È anche vero, inoltre, che un prezzo sopra i 60 dollari al barile esclude dal mercato intere popolazioni e paesi, tipicamente quelli africani e di alcune zone depresse dell’Asia, in cui il 90 per cento del consumo energetico è coperto da biomassa (fondamentalmente legna). “Questo significa uccidere la domanda”, commenta Pardi. Secondo i ricercatori dell’Aspo e dell’Ewg, al di là dei numeri e delle date, (che il picco sia avvenuto nel 2007 o che ci sarà tra qualche anno è del tutto irrilevante per il metabolismo socio-economico), siamo già in grave ritardo rispetto a qualsiasi piano di mitigazione degli effetti, soprattutto considerando che la popolazione mondiale sta crescendo in modo quasi esponenziale e che i nostri sistemi di produzione, primo tra tutti quello agricolo, è legato all’oro nero.
Tiziana Moriconi, galileonet.it QUI
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