Caro Direttore, ho letto sul Corriere il fondo di Dario Di Vico («La fine dei tabù», 23 maggio) sul ritorno al nucleare con molto interesse ma anche con un po' di malinconia e di preoccupazione. Malinconia perché considero quella nucleare l'ingegneria più complessa, critica e affascinante. Mi sono laureato in Ingegneria Nucleare nel '68 al Politecnico di Milano, poi sono stato anche al Mit dove si spiegava che senza la cultura rigorosa di «sistema Paese» che viene dalla familiarità col nucleare militare, è difficile giustificare in termini di costi e sicurezza una produzione elettrica nucleare rilevante. Al ritorno in Italia ho cambiato mestiere, ma ho votato per il nucleare al referendum e ho continuato a seguire il settore. Preoccupazione perché vedo che l'informazione sul ritorno al nucleare non è in linea con la visione serena dei fatti, indispensabile a una politica energetica corretta, col petrolio a 130$ e l'incubo dell' effetto serra. Cito tre esempi. Primo: non conosco alcun filonucleare onesto in grado di sostenere che prima di 8-10 anni potrà entrare in esercizio in Italia una centrale atomica, anche usando le tecnologie oggi provate di terza generazione, anche perché trovare dove farla e dove confinare le scorie, radioattive per secoli, non è semplice. Secondo: dire che il nucleare mitiga l'effetto del biofuel da cereali sul prezzo del grano è improprio. Il biofuel non alimenta le centrali ma le automobili, e il nucleare non serve a farle andare, prima che arrivi il tempo dell'idrogeno. Il biofuel crea problemi al prezzo del frumento perché è spinto da incentivi sbagliati, non perché mancano centrali nucleari. Terzo: pensare che il mondo «povero » tragga beneficio dal nucleare, senza che gli si trasferisca alcuna tecnologia, è antistorico. Si parla dei reattori «sigillati » e gestiti dai produttori francesi, americani, e giapponesi, impianti dal «profumo coloniale» che non vuole nessuno. La gente del Terzo mondo vuole energia autonoma, diffusa e rapida da installare, e dato che in gran parte sta al caldo, pensa al solare che ha queste caratteristiche. Sogna il deserto come solar farm, e il campo dietro le capanne fuori rete, per lampadina e pompa dell' acqua. Questi sono solo spunti di una riflessione che suggerisce di parlare di nucleare solo in una strategia energetica complessiva. Enfatizzo i tempi lunghi del nucleare perché viviamo in un contesto di innovazione fortissima delle altre fonti energetiche, a partire dal solare, fino al biofuel da batteri con alghe. Il solare fotovoltaico, in particolare, già tra cinque anni può arrivare alla grid parity, quando l'impianto diventa conveniente anche senza incentivi, con prezzi delle celle solari a mille euro al kilowatt. Dipende anche dal dove, certo, (Catania è meglio di Bologna, ma peggio di Addis Abeba). Conosco società americane che hanno raccolto centinaia di milioni di dollari per fabbriche con le nuove tecnologie in California e nel Brandeburgo. FirstSolar, la prima quotata in Borsa, è cresciuta del 700% in un anno. Negli Usa ci credono e, comunque, da qualche lustro, non hanno più costruito nessuna centrale nucleare. Servono investimenti bilanciati sullo sviluppo di fonti a emissione zero nelle tecnologie che stanno arrivando, non di quelle che ci sono già. Ciò vale anche per il nucleare di quarta generazione che offre soluzioni davvero nuove per la sicurezza, per le scorie, e per gli approvvigionamenti di uranio anche loro limitati. Ripartire da zero a far centrali con le tecnologie di oggi è un po' come rimettersi a far carrozze (anche se sempre più belle e comode) quando si stanno aprendo le prime fabbriche di automobili.
di Alessandro Ovi
direttore di Technology Review www.technologyreview.it
Corriere della Sera
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